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  • Diritto Civile
  • venerdì, 6 Giugno 2025

Diffamazione a mezzo stampa

  • Valerio de Gioia
  • Diritto Civile

Provvedimento (estremi)

Sentenza – Cass. civ., sez. un., ud. 11 marzo 2025 – dep. 18 maggio 2025, n. 13200

Tematica

Diritto civile
Responsabilità civile
Diffamazione (cronaca giudiziaria)

Norma/e di riferimento

Art. 21 Cost.
Artt. 51 e 595 c.p.
Artt. 2043 e 2059 c.c.

Massima/e

In tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori. Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2025, n. 13200

 

Per avvalersi della esimente del diritto di cronaca giudiziaria, le inesattezze dei fatti oggetto della notizia devono avere carattere ‘secondario’, ossia tali che non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili. Sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto ‘vero’ in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo ‘falso’ e, oltre che tale, diffamatorio. Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2025, n. 13200

In senso conforme: Cass. civ. 13126/2024; Cass. civ. n. 12903/2020; Cass. civ. n. 7757/2020; Cass. civ. n. 11233/2017

 

La rappresentazione dello status giuridico di imputato ascritto ad una persona sottoposta alle indagini sortisce degli effetti pregiudizievoli sulla reputazione del soggetto protagonista della notizia propalata. Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2025, n. 13200

In senso conforme: Cass. civ. 11679/2022; Cass. civ. 12370/2018; Cass. pen. 51619/2017; Cass. civ. 18264/2014; Cass. pen. 13702/2010; Cass. pen. 34544/2001

 

Va esclusa l’operatività della scriminate del diritto di cronaca giudiziaria allorquando, anche solo nel titolo dell’articolo, venga impropriamente ascritto alla persona sottoposta alle indagini un addebito per un fatto-reato diverso rispetto al reato in relazione al quale si sta effettivamente svolgendo l’attività inquirente o venga ascritta, del pari impropriamente, una condotta sostanzialmente diversa e più grave rispetto a quella descritta negli atti giudiziari o nell’oggetto dell’imputazione. Cass. civ., sez. un., 18 maggio 2025, n. 13200

In senso conforme: Cass. civ. 26789/2024; Cass. pen. n. 13782/2020; Cass. pen. n. 39503/2012; Cass. pen. n. 5760/2012; Cass. pen. 42155/2011; Cass. pen. n. 8036/1998

Commento

Diffamazione a mezzo stampa: esclusa l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato

di Valerio de Gioia

 

Il diritto di cronaca, con particolare riferimento al requisito della verità, assume una fisionomia peculiare quando il suo contenuto sia rappresentato dalla narrazione di vicende giudiziarie da veicolare alla collettività.

La particolare tipologia dell’informazione fa assumere all’attività consistente nella sua propalazione una vocazione culturale e sociale ancor più pregnante, condensando l’attenzione dei lettori su fatti di reato e sull’operato degli organi giudiziari.

In questo ambito, il rilievo pubblicistico dell’attività acquisisce particolare spessore in ragione del rapporto che essa viene ad instaurare rispetto ad un altro valore-principio costituzionale, riconosciuto e garantito dall’art. 101, comma 2, Cost. Tale norma esprime un principio funzionale a garantire un’amministrazione della giustizia trasparente, in base al quale l’esercizio dell’attività giurisdizionale trova nel “popolo”, in nome del quale la giurisdizione viene esercitata, il proprio referente.

L’attività giornalistica in generale e il circuito dell’informazione in particolare assicurano una virtuosa circolarità democratica che si sviluppa attraverso il racconto dei fatti e la sensibilizzazione della collettività su tematiche che i fatti oggetto di narrazione attingono. Sicché, si stimola la formazione dell’opinione pubblica non solo sulla legge come emanata, ma anche su come essa viene applicata, consentendosi alla collettività una partecipazione attiva, informata e consapevole al complessivo processo democratico. Tuttavia, anche nell’ambito della cronaca giudiziaria il ruolo fondamentale dell’attività giornalistica non vale di per sé a fondare una legittimazione incondizionata della propalazione di notizie e, anzi, il giudizio di bilanciamento si viene a comporre di un ulteriore valore-principio di rilevanza costituzionale: la presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost. La partecipazione di tale principio al giudizio di bilanciamento porta con sé necessarie implicazioni che si riverberano sul requisito della verità, che viene conformato in relazione alle peculiarità della fonte primaria da cui la notizia promana, trattandosi di atti e/o provvedimenti giudiziari il cui contenuto mostra, di regola, una incisiva attitudine a ledere i diritti della personalità del soggetto che ne è attinto.

La peculiarità del contesto non impone, comunque, il ricorso a fonti informative ‘privilegiate’, giacché la notizia può essere estrapolata da una fonte ‘indiretta’, come, ad esempio, un altro articolo di giornale, che riproduca a sua volta il contenuto dell’atto/provvedimento giudiziario, in cui la notizia è incorporata. Tuttavia, il referente ultimo per valutare l’aderenza al vero della narrazione rimane la fonte primaria e ciò, dunque, preclude all’autore della pubblicazione giornalistica artificiose rielaborazioni e reinterpretazioni delle informazioni tratte da atti/provvedimenti giudiziari, alterandone o manipolandone il contenuto, imponendo, altresì, un necessario aggiornamento temporale dell’informazione, alla luce degli sviluppi investigativi e istruttori intercorsi tra il momento dell’atto/provvedimento al quale si fa riferimento e quello della divulgazione della notizia.

Il tratteggiato percorso interpretativo è il precipitato delle più generali coordinate di principio in tema di cronaca giudiziaria individuate dalla giurisprudenza di legittimità, sia civile, che penale, che, in sintesi, ha affermato:

a) ai fini dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., è indispensabile che il giornalista verifichi, con cura e diligenza, l’attendibilità della fonte e anche l’aggiornamento della notizia che viene fornita, perché il riferimento ad un determinato atto processuale potrebbe non essere più attuale (Cass. civ. n. 21969/2020; Cass. civ. n. 11769/2022; Cass. pen. n. 41135/2001; Cass. pen. n. 23695/2010; Cass. pen. 27106/2010; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. pen. 32603/2023);

b) nel caso di notizie lesive mutuate da provvedimenti giudiziari, il presupposto della verità deve essere restrittivamente inteso (salva la possibilità di inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o aggravarne la valenza diffamatoria), nel senso che la notizia deve essere fedele al contenuto del provvedimento e che deve sussistere la necessaria correlazione tra fatto narrato e quello accaduto, senza alterazioni o travisamenti di sorta, non essendo sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi (Cass. civ. n. 22190/2009; Cass. civ. n. 18264/2014; Cass. civ. n. 17197/2015; Cass. civ. n. 11769/2022; Cass. civ. n. 6072/2023; Cass. civ. n. 28331/2023; Cass. pen. n. 12859/2005; Cass. pen. n. 43382/2010; Cass. pen. n. 38323/2023);

c. 1) quanto alle inesattezze dei fatti oggetto della notizia, queste devono avere carattere ‘secondario’, ossia tali che non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili. Sono da considerare marginali le imprecisioni che non mutano in peggio l’offensività della narrazione e, per contro, sono rilevanti quelle che stravolgono il fatto ‘vero’ in maniera da renderne offensiva l’attribuzione a taluno, all’esito di una valutazione del loro peso sull’intero fatto narrato al fine di stabilire se siano idonee a renderlo ‘falso’ e, oltre che tale, diffamatorio (Cass. civ. n. 11233/2017; Cass. civ. n. 7757/2020; Cass. civ. n. 12903/2020; Cass. civ. n. 13126/2024).

Emerge, dunque, come orientamento consolidato quello per cui le inesattezze secondarie, che non alterano o manipolano il contenuto diffamatorio della notizia, non si frappongono all’operatività della scriminante, proprio in ragione del fatto che una soglia di tolleranza delle infedeltà narrative debba trovare spazio inevitabilmente anche nell’ambito della cronaca giudiziaria. Ciò è naturale conseguenza del fatto che l’imputazione della condotta diffamatoria non possa prescindere da un vaglio di offensività da condurre con riferimento al bene protetto dalla fattispecie incriminatrice. Quando, nonostante l’inesattezza, la notizia risulti autenticamente vera sotto il profilo strutturale e fattuale, non vi è ragione per addebitare la responsabilità civile per diffamazione all’autore della pubblicazione, che abbia errato nella rappresentazione di alcuni elementi. Tanto vale anche nell’ipotesi in cui i suddetti elementi avrebbero certamente consentito una più completa esposizione della vicenda narrata, ma senza incidere sul contenuto essenziale del dato informativo, essendo a tal fine neutri. Del resto, si concorda sul fatto che il dovere di accertamento diligente della veridicità di elementi secondari, inidonei a condizionare la carica diffamatoria della notizia, non sia esigibile nei confronti del giornalista, sul presupposto che la presenza di imprecisioni, che non influenzino la percezione complessiva del fatto narrato, non dovrebbe ostacolare l’esercizio del diritto di cronaca.

Ai fini della individuazione in concreto della marginalità delle inesattezze non è irrilevante, poi, stabilire un parametro di riferimento, che permetta di misurare la portata di esse in relazione ai destinatari dell’informazione. Questo implica l’identificazione di un paradigma di lettore, la cui opinione possa essere conformata dalle notizie che lo raggiungono. La prevalente giurisprudenza delle Sezioni civili della Suprema Corte (Cass. civ. n. 20608/2011; Cass. civ. n. 25739/2014; Cass. civ. n. 12012/2017; Cass. civ. n. 29640/2017; Cass. civ. n. 16311/2018; Cass. civ. n. 32780/2019; Cass. civ. n. 19250/2023; Cass. civ. n. 23978/2023; Cass. civ. n. 13156/2024) ha assunto quale modello di lettore suscettibile di essere raggiunto e influenzato dalle notizie che gli vengono propalate il c.d. “lettore frettoloso”, quello sprovvisto di tendenza all’approfondimento. Analogo indirizzo si registra nella giurisprudenza delle Sezioni penali meno recente (Cass. pen. n. 8035/1998; Cass. pen. n. 26531/2009; Cass. pen. n. 4558/2010; Cass. pen. n. 20608/2011; Cass. pen. n. 6110/2018; Cass. pen. n. 12800/2019). Secondo la definizione che l’interpretazione giurisprudenziale ha fornito, il lettore frettoloso, ritenuto statisticamente prevalente, è colui che si sofferma sulle parti che graficamente sono in grado di catalizzare maggiormente la sua attenzione, come ad esempio il titolo che rechi un’affermazione chiara, compiuta, univoca, che di per sé sarebbe sufficiente ad esaurire il contenuto della notizia senza richiedere un approfondimento nella lettura del testo. Tali considerazioni assumono rilievo a fortiori alla luce del rinnovato contesto in cui la divulgazione avviene. Preso atto dello sviluppo tecnologico e digitale, che ha investito anche il settore della stampa, si è imposta un’interpretazione di tipo estensivo ed evolutivo dei connotati tipologici della nozione di stampa, desumibili dall’art. 1, L. n. 47/1998: quello oggettivo e strutturale, che configura la stampa come riproduzione meccanica, e quello di tipo funzionale, rappresentato dalla destinazione al pubblico del prodotto editoriale. In tal senso, dapprima le Sezioni Unite penali (Cass. pen., sez. un., n. 31022/2015) e, poi, quelle civili (Cass. civ., sez. un., n. 23469/2016) si sono pronunciate sulla equiparazione tra stampa tradizionale cartacea e stampa telematica online ove sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie pubblicate, solo o anche, con mezzo telematico, affermando il principio secondo cui la tutela costituzionale assicurata dall’art. 21, comma 3, Cost., alla libertà di stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo (così anche Cass. civ. n. 23978/2023). Il contesto dell’informazione digitale e telematica ha alimentato la tendenza dei lettori alla ricerca di un’informazione sintetica, poiché molto spesso il lettore, utente di un social network, accede alla notizia tramite la propria “homepage”, nella quale vengono raggruppati numerosi contenuti, messi a disposizione del fruitore del servizio offerto dalla piattaforma ed essendo rimessa alla volontà di approfondimento dell’utente la visualizzazione della versione integrale del singolo contenuto digitale, cliccando su un apposito link. Preso atto delle peculiarità del contesto informativo in questione, la giurisprudenza (Cass. civ. n. 12012/2017) ha ritenuto che la valutazione del carattere diffamatorio del dato informativo non si debba necessariamente estendere alla sua integralità, ma si possa arrestare all’analisi di titoli, sottotitoli e/o sommari, senza la pretesa che il lettore si dedichi alla lettura integrale e accurata del contenuto informativo. Tuttavia, nella più recente giurisprudenza penale si registra la propensione ad affidarsi ad un diverso modello valutativo della natura diffamatoria del prodotto editoriale, basato sulla capacità di discernimento del c.d. “lettore medio”, la cui attenzione si estenda ad una lettura, pur non approfondita, del contenuto integrale, sebbene senza particolare sforzo o arguzia (Cass. pen. n. 10967/2019; Cass. pen. n. 503/2023; Cass. pen. n. 11669/2023; Cass. pen. 13017/2024). Ne consegue, secondo questo indirizzo, che per ponderare la natura diffamatoria di una pubblicazione occorre valutare globalmente gli elementi di cui essa si compone e non già arrestarsi a considerarne, atomisticamente, singole parti (Cass. pen. n. 9035/1998). La distanza tra i due anzidetti orientamenti è, tuttavia, più apparente che reale, giacché la diversità di paradigma impiegato per ponderare il significato diffamatorio di un articolo si correla piuttosto al diverso contesto comunicativo in cui l’informazione viene veicolata. Va, infatti, considerato che, diversamente dalla dimensione dell’informazione cartacea, nella dimensione dell’informazione digitale le dinamiche dell’informazione sono trasformate e la presentazione del dato informativo si ispira alla ricerca di essenzialità e speditezza, nell’obiettivo di abbinare sintesi e profondità comunicativa. E non si può, dunque, trascurare il fatto che un tale fenomeno investa entrambi i terminali del rapporto informativo: sia quello attivo, dal quale l’informazione promana, sia quello passivo, che viene dall’informazione raggiunto.

È orientamento affatto prevalente della giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. 34544/2001; Cass. pen. 13702/2010; Cass. n. 18264/2014; Cass. pen. n. 51619/2017; Cass. n. 12370/2018; Cass. n. 11679/2022) che la rappresentazione dello status giuridico di imputato ascritto ad una persona sottoposta alle indagini sortisce degli effetti pregiudizievoli sulla reputazione del soggetto protagonista della notizia propalata. Si sottolinea, in particolare, il carattere evidente della differenza giuridica tra avviso di conclusione delle indagini preliminari, inoltrato dal pubblico ministero, ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., e il rinvio a giudizio da parte del giudice per le indagini preliminari. Tale discrasia si riverbera inevitabilmente anche sulla percezione che l’opinione pubblica matura circa lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria, che riguarda un determinato soggetto, la cui progressione tende ad alimentare il convincimento di un effettivo coinvolgimento della persona sottoposta alle indagini nei reati che hanno giustificato la pendenza della vicenda giudiziaria nei suoi confronti. Evocativa in tal senso è Cass. civ. n. 12370/2018, là dove segnatamente afferma che “(a)nche secondo il comune modo di pensare, un conto, infatti, è riferire che il pubblico ministero dopo aver indagato su di un personaggio politico, ha ritenuto di aver completato le attività investigative, altro è che il pubblico ministero abbia richiesto il rinvio a giudizio, esercitando l’azione penale, e soprattutto che il giudice, organo terzo e imparziale, abbia esaminato il risultato di tali attività investigative e abbia ritenuto che sussistessero sufficienti elementi di prova per la celebrazione del giudizio penale a carico dell’indagato”. Ed è in questo ambito che si affronta anche la differenza giuridica esistente tra avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, provvedimento attraverso il quale il pubblico ministero esercita l’azione penale. Snodo essenziale tra procedimento e processo penale è proprio la presentazione della suddetta richiesta, che determina un mutamento di status, in conseguenza del quale la persona sottoposta alle indagini acquista la qualifica di imputato. Un tale consolidato indirizzo è contrastato dalla sentenza delle Sezioni penali (Cass. pen. n. 15093/2020) incline a svalutare il contenuto offensivo della discrepanza tra lo stato di avanzamento della vicenda giudiziaria sul piano storico e quello riportato nella narrazione. Mentre vi è concordia nel ritenere macroscopico il carattere dell’errore e la natura diffamatoria della notizia nel caso in cui venga riportato il riferimento al decreto di rinvio a giudizio, atto promanante dal giudice per le indagini preliminari – e, quindi, frutto di vaglio da parte di un giudice terzo e imparziale sulla prospettazione accusatoria –, anziché quello relativo all’avviso ex art. 415-bis c.p.p., atto promanante dal pubblico ministero, una divergente prospettiva si intercetta con riferimento alla propalazione di una notizia che riguardi la richiesta di rinvio a giudizio, piuttosto che l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. In quest’ultimo caso, la Suprema Corte (Cass. pen. n. 15093/2020), ha ritenuto che l’insussistenza di un’ipotesi di diffamazione a mezzo della stampa si giustifichi in quanto “la divergenza tra quanto propalato e l’effettivo stato del procedimento costituisce una mera inesattezza su un elemento secondario del fatto storico, che non intacca la verità della notizia principale, secondo cui il procedimento, nella prospettiva della pubblica accusa, è approdato ad una cristallizzazione delle risultanze d’indagine funzionale alla sua progressione”. A sostegno di tale arresto si adduce l’attiguità sul piano procedimentale tra l’avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, essendo il primo prodromico al secondo, giacché, in base al disposto dell’art. 415-bis c.p.p., l’inoltro di tale avviso è subordinato all’intenzione del pubblico ministero di coltivare l’ipotesi accusatoria e precede l’avvio del processo penale a carico della persona sottoposta alle indagini. I due atti avrebbero, dunque, la comune derivazione dalla sfera dell’accusa, pur essendo gli stessi autonomi e preordinati all’assolvimento di funzioni diverse. In definitiva, uno scostamento di tale portata tra la realtà giudiziaria storica e quella narrata rivelerebbe una sostanziale inoffensività, non essendo l’inesattezza in grado di trasmodare in una falsità della notizia di natura diffamatoria. È, poi, affatto prevalente l’indirizzo della giurisprudenza, sia civile, che penale, di legittimità, nell’escludere l’operatività della scriminate del diritto di cronaca giudiziaria allorquando, anche solo nel titolo dell’articolo, venga impropriamente ascritto alla persona sottoposta alle indagini un addebito per un fatto-reato diverso rispetto al reato in relazione al quale si sta effettivamente svolgendo l’attività inquirente o venga ascritta, del pari impropriamente, una condotta sostanzialmente diversa e più grave rispetto a quella descritta negli atti giudiziari o nell’oggetto dell’imputazione (Cass. pen. n. 8036/1998; Cass. pen. 42155/2011; Cass. pen. n. 5760/2012; Cass. pen. n. 39503/2012; Cass. pen. n. 13782/2020; Cass. 26789/2024). Non mancano, tuttavia, affermazioni più rigorose, in forza delle quali si reputa che sia insufficiente, al fine di escludere la natura diffamatoria della propalazione, la circostanza che il reato attribuito risulti, sulla base del raffronto tra cornici edittali, astrattamente meno grave di quello per il quale il soggetto sia effettivamente perseguito. La minusvalenza offensiva del reato addebitato dalla narrazione rispetto a quello addebitato dagli inquirenti non varrebbe ad erodere la natura diffamatoria della notizia non veritiera, riportata dal giornalista. La minore gravità del titolo di reato ascritto dalla pubblicazione non rileva che sia nota agli “addetti ai lavori”, bensì alla sfera di utenza alla quale il contenuto è destinato, vale a dire quella del comune lettore (Cass. civ. n. 3340/2009). In questi termini l’oggettiva non veridicità della notizia sarebbe per ciò solo sufficiente a qualificare in termini di diffamazione la condotta divulgativa del dato non veritiero (Cass. pen. n. 3073/2016). Una valutazione, dunque, a maglie più strette che, però, trova convincente attenuazione in quell’orientamento che dà risalto alla minusvalenza offensiva tra il contenuto della narrazione e l’addebito effettivo, quale circostanza idonea a riverberarsi nella minore lesività della condotta divulgativa rispetto al bene della reputazione, che non può essere vulnerato dal mero fatto dell’infedeltà narrativa. L’affermazione di una condotta diffamatoria non può, quindi, essere affatto avulsa dal giudizio di offensività che ha come referente il bene giuridico che si assume leso; sicché, la discrepanza tra il titolo di reato riportato nella notizia e quello in relazione al quale si sta svolgendo l’attività inquirente non può comportare, in forza di un automatismo, la natura diffamatoria della divulgazione (Cass. pen. n. 6410/2010; Cass. civ. n. 12903/2020). In siffatto contesto va, peraltro, appena rammentato che non si nutrono dubbi sulla qualificazione giuridica del tentativo come fattispecie autonoma di reato, quale delitto strutturalmente perfetto, ma meno grave rispetto alla corrispondente figura criminosa nella forma consumata. Esso, infatti, esprime, rispetto a quest’ultima, un disvalore più tenue e viene sanzionato con una pena autonoma e meno afflittiva.

Le Sezioni Unite hanno dato continuità all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, sia pure con alcune puntualizzazioni, affermando che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori.

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