- Lavoro
Le clausole di non concorrenza: la ratio e i presupposti di validità
- Lavoro
Provvedimento (estremi)
Ordinanza – Cass. civ., sez. lav., ud. 30 gennaio 2025 – dep. 16 maggio 2025, n. 13051
Tematica
Rapporto di lavoro
Patto di non concorrenza
Norma/e di riferimento
Artt. 1346, 2125 e 2596 c.c.
Massima/e
Le clausole di non concorrenza sono finalizzate, da un canto, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti. Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 2025, n. 13051
In senso conforme: Cass. civ. 9790/2020; Cass. civ. 24662/2014.
Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale consegue comunque la nullità dell’intero patto. Cass. civ., sez. lav., 16 maggio 2025, n. 13051.
In senso conforme: Cass. civ. 33424/2022; Cass. civ. 23723/2021; Cass. civ. 5540/2021; Cass. civ. 9790/2020
Commento
Le clausole di non concorrenza: la ratio e i presupposti di validità
di Giovanna Spirito
Le clausole di non concorrenza sono finalizzate, da un canto, a salvaguardare l’imprenditore da qualsiasi “esportazione presso imprese concorrenti” del patrimonio immateriale dell’azienda, trattandosi di un bene che assicura la sua resistenza sul mercato ed il suo successo rispetto alle aziende concorrenti, e, d’altro canto, a tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter indirizzare la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti (da ultimo, Cass. civ. n. 9790 del 2020, conf. a Cass. civ. n. 24662 del 2014).
Il legislatore, proprio perché la regola è che, alla cessazione del rapporto, il lavoratore recuperi la piena ed assoluta libertà di collocare le proprie prestazioni in ogni settore del mercato e della produzione, ha, peraltro, dettato – nell’ambito della generale disciplina ex art. 2596 c.c. in tema di limitazioni (legali o volontarie) alla concorrenza – una specifica regolamentazione che porta a differenziare integralmente il lavoratore subordinato da tutti gli altri soggetti pur essi destinatari del divieto di concorrenza (cfr. al riguardo gli artt. 1751-bis, 2557, 2301 e 2390 c.c.), affinché detta libertà, pur se assoggettabile a condizionamenti in ossequio alla regola dell’autonomia contrattuale, non possa essere limitata in modo tale da compromettere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore, pregiudicandone ogni potenzialità reddituale.
In ragione di ciò, l’art. 2125, comma 1, c.c., ha subordinato la validità del patto di non concorrenza a specifiche condizioni – espressamente indicate dalla norma – di forma, di corrispettivo, di limiti di oggetto, di tempo e di luogo, presidiando l’eventuale violazione con la più grave delle sanzioni negoziali: la nullità del patto.
Ciò premesso, deve ritenersi necessario che, ai fini del rispetto dell’art. 2125 c.c., i limiti di oggetto, di tempo e di luogo del patto di non concorrenza, siano determinati o, quantomeno, determinabili sin dal momento della conclusione di tale negozio giuridico in modo da consentire una corretta formazione del consenso delle parti in sede di stipula.
La ratio della disposizione, chiaramente ispirata all’intento di bilanciare i contrapposti interessi delle parti, riposa, infatti, sull’esigenza che il lavoratore abbia sicura contezza, fin dall’assunzione dell’impegno, della area geografica in relazione alla quale si esplicherà il vincolo, per assumere le determinazioni più opportune sulle scelte lavorative, le quali verrebbero ostacolate ove essa fosse soggetta alle determinazioni unilaterali della controparte.
Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede, innanzitutto, che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; se determinato o determinabile, va verificato, ai sensi dell’art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato, e che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale; all’eventuale sproporzione economica del regolamento negoziale consegue comunque la nullità dell’intero patto (cfr. Cass. civ. n. 9790/2020, n. 5540/2021, n. 23723/2021, n. 33424/2022).